Il Miele Sacro agli Dei

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Il miele delle api mellifere è un prodotto ricercato dall’uomo sin dalla più remota antichità, cioè dai periodi dei Cacciatori-Raccoglitori, e nell’arte rupestre preistorica sono impresse scene di raccolta del miele datate a partire dai periodi Mesolitici (Crane, 2001). Ed è dal miele che l’uomo ha appreso, aggiungendovi acqua e lasciando fermentare, a ricavare la più antica bevanda alcolica, l’idromele, che poteva raggiungere gradazioni dell’8-14%. Questa scoperta si è verificata probabilmente in maniera indipendente in diverse aree geografiche. I dati archeologici, etnografici e mitologici hanno evidenziato un’antichissima sacralità associata al miele e alle api mellifere, tale per cui un po’ ovunque questi insetti furono considerati donatori di saggezza, di eloquenza e di sensibilità musicale e poetica. Fra i Greci, i Romani, le popolazioni germaniche e persino in India era diffusa la credenza che il miele fosse un dono del cielo ed era portato all’uomo dalle api (Ransome, 2004). E’ sufficiente qui ricordare l’idromele di saggezza o di poesia delle popolazioni germaniche (Dumézil, 1974: 44-5). In diversi ambiti culturali e religiosi associati all’utilizzo di prodotti inebrianti si è potuto individuare un sostrato più antico dove la bevanda inebriante originaria era ricavata dal miele e fu in seguito sostituita dal nuovo inebriante. E’ il caso del pulque delle antiche popolazioni messicane, ed è il caso anche del vino dionisiaco. Come hanno ben evidenziato gli studi di Kerényi (1992: 51-5), la bevanda inebriante originaria dionisiaca era a base di miele e non di vino. Secondo la tradizione orfica il vino faceva parte degli ultimi – in ordine cronologico – doni di Dioniso (si vedano anche gli studi di Brusa Zappellini, 2002, 2010).
Ma l’ebbrezza associata al miele non è solamente dovuta all’idromele. In tutti i continenti dove vivono le api mellifere si hanno notizie di mieli di per se inebrianti, cioè psicoattivi quando assunti senza la loro trasformazione in idromele, e la grande antichità del rapporto dell’uomo con le api e soprattutto con i suoi prodotti – miele e cera – fa sì che la scoperta umana di mieli psicoattivi si sia verificata un po’ ovunque sin dai tempi preistorici.
E’ possibile che la mitizzazione e la sacralità delle api sia solo in parte dovuta alla scoperta e all’utilizzo dell’idromele, e che in diversi casi sia da ascrivere alla conoscenza di specifici mieli psicoattivi, frequentemente dotati di potenti proprietà allucinogene, delirogene, sedative o stimolanti, a seconda dei casi (Samorini, 2015).
Parrebbe che gli antichi Greci fossero a conoscenza di questo tipo di mieli. Secondo quanto riportato da Porfirio nel suo L’antro delle ninfe, scritto nel III secolo d.C., Zeus adescò il più vecchio dio Crono con del miele: “Egli, sazio di miele, si ubriaca ed è ottenebrato come fosse ebbro di vino”, e fu la Notte a suggerire a Zeus di rendere Crono “ubriaco per il frutto del lavoro delle api” (v. 16). Nell’Inno Omerico a Hermes (550-563) v’è un esplicito riferimento a delle donne vergini, chiamate melissai, che profetizzavano in virtù di una specie di miele che ingerivano: “E quando, per aver mangiato il biondo miele (meli chloron), sono prese dall’ispirazione, benignamente consentono a rivelare la verità”. Mayor (1995: 40) ha evidenziato come il termine chloron in questo caso andrebbe tradotto con “verde”, piuttosto che con “biondo”, e che quindi il “miele verde” sarebbe un particolare tipo di miele, evidentemente psicoattivo. Becerra Romero (2008) ha evidenziato alcuni altri passi della letteratura greca arcaica in cui determinati mieli potrebbero essere intesi come dotati di proprietà inebrianti. Nell’Iliade di Omero (XI, 631) viene menzionato un “miele giallastro” (μέλι χλωρόν) che viene aggiunto fra i vari ingredienti di una bevanda a base di vino di Pramno, preparata da Hecamede, schiava di Nestore, e che viene offerta a un gruppo di Achei. Nell’Odissea, nel famoso passo della trasformazione dei compagni di Ulisse in porci da p’arte della maga Circe, il filtro magico che questa offre agli sventurati ospiti, e per mezzo del quale avviene la trasformazione zoomorfa, è costituito di farina, “miele verde” e vino di Pramno (Od., X, 231-240). Il fatto che questo miele fosse verde potrebbe essere indizio di sue proprietà inebrianti e/o tossiche, oltre al fatto che un ingrediente di un filtro di una maga portentosa quale era Circe difficilmente sarebbe stato privo di interesse psicofarmacologico. Infine, in un passo dell’Inno Omerico a Hermes (550-567) è descritto un oracolo di Apollo in cui tre sorelle profetizzavano entrando in trance in seguito all’ingestione di un certo miele rosso.
Il caso storico più noto di mieli inebrianti è quello narrato da Senofonte. Nel 401 a.C., per via di vicissitudini belliche e politiche, questo condottiero greco si ritrovò con un’armata di diecimila guerrieri opliti a intraprendere dalle regioni asiatiche un lungo e avventuroso viaggio di ritorno in territori ostili verso la patria Grecia. Lo stesso Senofonte descrisse questa avventura in un testo rimasto famoso, l’Anabasi. Durante il passaggio nella Colchide, regione del Ponto che si estende lungo il bacino orientale del Mar Nero, dove viveva il popolo dei Colchi, gli uomini di Senofonte, sempre alla ricerca affannosa di viveri, si cibarono avidamente di un miele che li intossicò sino a renderli inabili al combattimento, con forte preoccupazione del condottiero per il pericolo che l’armata venisse attaccata dai Colchidi proprio in quel frangente.
Di seguito il resoconto della vicenda dato dallo stesso Senofonte, secondo la traduzione di Enzo Ravenna (Senofonte, 1984: 229):
“Specialità del luogo sono i favi di miele, coltivati su larga scala da tutti gli abitanti del posto; i soldati che si provano a metterne in bocca qualcuno vengono colti da malore improvviso, con vomito e mossa di corpo, e non si reggono in piedi: chi ne ha appena gustato, si sente come ubriaco. Quelli che ne hanno fatto una scorpacciata ora smaniano come pazzi e sembra addirittura che stiano per morire; ce ne sono tanti supini sul terreno che sembra di trovarsi di fronte a un campo di battaglia dopo la sconfitta. Questo malessere generale getta nella costernazione tutto l’esercito. Ma il giorno dopo, alla stessa ora in cui s’era diffuso il male, tutti i malati ritornano alla normalità: il miele non ha ucciso nessuno, anzi il terzo e il quarto giorno tutti incominciano ad alzarsi; si sentono solo un po’ deboli, come dopo aver preso una buona purga.” (Senofonte, Anabasi, IV, 8, 19-21).1
Dal resoconto si arguisce che si tratta di un miele dalle proprietà psicoattive, e non meramente tossiche. In quell’occasione non si verificarono intossicazioni letali.2 Alcuni secoli dopo l’incidente con il miele accaduto a Senofonte, nel 66 a.C. ai legionari di un’armata romana guidata da Pompeo, avventuratisi in quei medesimi luoghi del Ponto nel corso delle guerre mitridatiche, accadde il medesimo tipo di incidente; questa volta però l’intossicazione non fu accidentale, poiché i nemici dei Romani (in questo contesto gli uomini dei Sette Borgi) avevano in precedenza appositamente sciolto il miele nel vino abbandonato appositamente lungo il percorso dei romani:
“Gli uomini dei Sette Borghi distrussero tre coorti di Pompeo che attraversavano le montagne, mescendo nei vasi da vino che avevano collocato lungo le strade un miele che provoca la follia, prodotto dai rami degli alberi. Difatti assalirono i soldati che avevano bevuto ed erano malridotti e facilmente ne ebbero ragione” (Strabone, Geografia, XII, 3,18, nella traduzione del 2000 di Roberto Nicolai e Giusto Traina).
Gli abitanti del Caucaso e della Turchia conoscono bene questo miele, chiamato oggigiorno deli bal (“miele matto”); in piccole quantità (un cucchiaino) viene mangiato come tonico e, sempre in quantità moderate, è aggiunto alle bevande alcoliche per renderle maggiormente stimolanti e inebrianti. Nel XVIII secolo questo miele veniva commercializzato in grosse quantità, esportato per lo più verso l’Europa, dove era consumato come additivo delle bevande alcoliche nelle osterie (Mayor, 2003: 146-7). Ogni anno nelle regioni caucasiche si verificano casi di intossicazione con questo miele, generalmente non gravi, e sembrano più frequenti nelle annate secche che in quelle umide. Casi fatali accadono occasionalmente fra i bambini, probabilmente perché questi tendono a mangiarne maggiori quantità di quelle ingerite dagli adulti (Howes, 1949).
Il deli bal viene prodotto e commercializzato in Turchia come “medicina alternativa”, e lo scopo principale del suo utilizzo è come afrodisiaco e per il trattamento delle disfunzioni sessuali, in particolare l’impotenza. Viene usato anche in casi di diabete mellito, disturbi gastroenterici, artriti e ipertensione. Verificata la facile esportazione del prodotto, il suo impiego come afrodisiaco è stato registrato anche in alcune nazioni europee (Demircan et al., 2009).
L’assunzione in eccesso del deli bal, impiegato come afrodisiaco sia da uomini che da donne, può indurre serie cardiopatie, in particolare l’infarto miocardico, e complicazioni respiratorie (Yarlioglues et al., 2011). E’ stato riportato il caso di uno studente che, negli anni 1970, assunse una notevole quantità di deli bal in una foresta caucasica con l’intenzione di procurarsi un “viaggio psichedelico”:
“Il viaggio fu inizialmente abbastanza piacevole, ma presto divenne terribile. Il formicolio e l’intorpidimento si trasformarono in vertigini, con forti vomiti e diarrea. Il suo parlare divenne ingarbugliato e gli effetti visivi psichedelici divennero spaventosi, con luci colorate turbinanti e visione a tunnel. Delirante, riuscì a raggiungere un villaggio poco prima che la paralisi muscolare causasse un collasso completo. Gli abitanti del villaggio lo assistettero salvandogli la vita. Alcuni giorni dopo, seguendo il medesimo percorso di recupero sperimentato dagli uomini di Senofonte, lo studente era ancora debole, ma in grado di stare in piedi. Più tardi egli apprese che i pastori danno da mangiare minuscole dosi di questo miele ai loro greggi come tonico primaverile. Essi gli dissero che la quantità che aveva assunto era sufficiente per uccidere un grosso mastino tibetano” (Mayor, 2003: 147).
Le proprietà psicoattive e tossiche di questo miele delle regioni del Mar Nero sono dovute al fatto che le api lo ricavano da pollini di fiori di alcune specie di rododendro, in particolare Rhododendron ponticum L. e R. luteum Sweet, della famiglia delle Ericaceae.3 Già gli antichi avevano compreso l’associazione fra questo miele e il rododendro. Plinio (Historia Naturalis, XXI, 77), che scriveva nel primo secolo d.C., riportava che “Nella stessa zona del Ponto, là dove si trova la popolazione dei Sanni, c’è un altro tipo di miele, che chiamano menòmeno4 perché provoca la pazzia. Si pensa che questa caratteristica derivi dal fiore del rododendro”.
Eliano riteneva che si trattasse invece del fiore del bosso.5 Più in generale, nell’antichità si era compreso che le qualità dei mieli dipendono dai tipi di fiori utilizzati dalle api, e che ciò differenzia i mieli in eduli, velenosi, medicinali e in alcuni casi inebrianti. E’ lo stesso Plinio a parlare di un altro tipo di miele, tossico, della medesima regione asiatica, evidenziando la relazione diretta fra la tossicità del miele e la pianta mellifera:
“Il nutrimento è tanto importante, che si forma anche del miele velenoso. A Eraclea sul Ponto, le medesime api producono, in certe annate, un tipo di miele dannosissimo: e le fonti non precisano da quali fiori esso provenga! Io riferirò ciò che ho appurato. C’è una pianta che, per la proprietà di uccidere anche i giumenti, ma in particolare le capre, prende il nome di egoletro. Se una primavera piovosa la fa avvizzire, le api succhiano dal suo fiore un umore nocivo. E’ per questo che il guaio non si riscontra tutti gli anni. I segni da cui si riconosce il miele velenoso sono questi: non diviene per niente denso, ha un colore più rossiccio, un odore strano, che subito provoca starnuti, pesa più del miele buono. Quelli che lo mangiano si gettano a terra in cerca di refrigerio, perché il sudore li inonda. … E’ accertato che questo male viene trasmesso anche ai cani attraverso le feci, e li fa soffrire in modo simile. Tuttavia si sa che il vino melato fatto con questo miele è innocuo una volta invecchiato, e che nessun tipo di miele è migliore, con il costo, per cancellare le macchie dalla pelle delle donne, con l’aloe per curare le contusioni.” (Hist.Nat., XXI, 74-76)6
La pianta egoletro, che significa in greco “rovina della capra”, potrebbe riferirsi anch’essa a una specie di rododendro.7 Dioscoride (De Mat. Med., II, 82) riferiva anch’egli di un miele della zona del Ponto: “A Heraclea del Ponto, in certi momenti dell’anno, a causa di certa particolarità dei fiori, si produce un miele che toglie il senso, con un grande sudore, a coloro che lo mangiano”.
 Fiori di Rhododendron luteum (A.) AGM., noto anche come Azalea pontica, una delle fonti del “deli bal”, il miele inebriante del caucaso (da Byfield, 1997, p. 58)
Studi recenti hanno individuato dei composti diterpeni poliidrossilati presente nelle foglie e nei fiori dei rododendri, chiamati grayanotossine (andromedotossina), considerati responsabili dell’intossicazione da “miele matto” (Gunduz et al., 2008; Türkmen et al, 2013). Questi composti agiscono sulla pompa del sodio provocando una depolarizzazione delle membrane cellulari, e nei casi di overdose si possono verificare infarti e blocco atrioventricolare. Le intossicazioni vengono trattate con infusione salina e atropina (Popescu & Kopp, 2013).
Altre specie di rododendro parrebbero essere dotate di proprietà psicoattive. R. viscosum (L.) Torr. viene impiegato come narcotico dai nativi del nord America (Popescu & Kopp, 2013), e in una specie che cresce nella Cina meridionale, R. anthopogonoides Maxim., sono stati individuati dei composti cannabinoidi-simili (Iwata & Kitanaka, 2011). L’andromedotossina è presente pure in un’altra ericacea, Ledum palustre L., utilizzata tradizionalmente come fonte psicoattiva (Plugge, 1891a,b).

Come detto, mieli inebrianti sono noti in tutte le regioni dove vivono le api e le vespe mellifere. In Brasile, A São Paulo, è noto un miele inebriante chiamato feiticeira (“fattuchiera”), prodotto da api privi di pungiglione appartenenti forse a una specie di Trigona. Il medesimo miele viene chiamato anche ironicamente vamo-nos-embora, che significa “andiamocene”, per via del fatto che coloro che ne assumono diventano troppo ebbri per ritrovare la strada di uscita dalla foresta (Ihering, 1903, p. 272). Nel Paraguay, il miele di una specie d’ape, chiamata cabatatú, “da un violento mal di testa e causa un’ebbrezza forte come quella prodotta dall’acquavite” (Azara, 1809, I: 160). In Misiones, Argentina, Spegazzini (1909: 40) ebbe la possibilità di sperimentare su se medesimo un miele narcotico chiamato popolarmente mombuca, e riportò che le proprietà narcotiche erano dovute molto probabilmente a fiori di piante psicoattive visitate dalle api. Si ha notizia di un miele psicoattivo anche nella provincia boliviana di Chiquitos, chiamato omocayoch, di buon sapore ma inebriante “come un liquore, causante spesso perdita temporanea della ragione” (D’Orbigny, 1839-1943, cit. in Schwartz, 1948: 132). Ihering (1903: 273) considerava l’effetto del miele prodotto da certe api come depressivo, mentre quello prodotto da certe vespe come esilarante. L’opposizione reale e mitologica fra mieli inoffensivi e mieli inebrianti dell’Amazzonia è stata studiata approfonditamente con una metodologia strutturalista da Lévi-Strauss (1982).
E’stato ipotizzato che il miele utilizzato ancora oggigiorno da alcune popolazioni Maya come ingrediente per la preparazione della bevanda inebriante del balché,8 possa essere o esser stato psicoattivo. La sua psicoattività sarebbe dovuta al fatto che le api si cibano di pollini di fiori di Turbina corymbosa (L.) Raf., una convolvulacea allucinogena producente alcaloidi ergolinici (Rätsch, 1998, p. 753; Ott, 1998, p. 262).
 Effettivamente già Roys (1931, p. 281) riportava che “il miele aromatico ricavato dai fiori di Turbina corymbosa è ritenuto dai Maya yucatechi la fonte di una potente bevanda”, e vi sono documenti etnografici in cui si evidenzia la preparazione nella penisola dello Yucatan di un tipo di miele di api melipone dove gli alveari venivano portati nelle radure della foresta dove cresceva la Turbina corymbosa e facendo attenzione che non crescesse alcun altro fiore (Quintanilla & Eastmond, 2012, pp. 270-1).
I casi di intossicazioni accidentali con mieli inebrianti continuano a verificarsi un po’ in tutto il mondo, poiché non sempre è prevedibile il tipo di fiori visitato dalle api. Sono i casi, ad esempio, accaduti negli anni ’50 del secolo scorso in Ungheria (Hazslinszky, 1956) e negli anni ’70 in Polonia (Lutomski et al., 1972), per via della presenza di alcaloidi tropanici nel miele di api che avevano visitato fiori di piante di datura e di belladonna. In Nuova Zelanda è noto un miele tossico-narcotico causato dalla pianta del tutu, cioè l’arbusto Coriaria arborea Linds. (famiglia delle Coriariaceae), il cui principio attivo è la tutina. L’assunzione di questo miele ha provocato diversi casi di intossicazione accidentale, come quello a carattere epidemico accaduto negli anni 1920 presso la Baia di Plenty, dove si verificarono diversi decessi (Palmer-Jones, 1965). In seguito a ulteriori intossicazioni degli anni 1940 è stato scoperto un sorprendente ciclo biologico: una specie di cavalletta, Scolypola australis Walker, si ciba delle foglie del tutu e i suoi escrementi dolciastri abbandonati sulle foglie vengono mangiati dalle api, le quali producono di conseguenza il miele tossico, contenente come principio attivo la tutina e altre due affini neurotossine (Palmer-Jones & White, 1949; Larsen et al., 2015). Il livello di tossicità di questo miele dipende principalmente dalla quantità assunta. Con quantità non eccessive sono stati riportati sintomi quali delirio, difficoltà della concentrazione, disorientamento e confusione. Nei tempi passati i Maori ricavavano dalle bacche del tutu una bevanda tonica e inebriante, prestando attenzione nel rimuovere la polpa e i semi, che sono altamente tossici (Bock, 2002-3).
Note 
1 – Anche Diodoro Siculo, che visse nel primo secolo a.C., parla di questo incidente accaduto all’armata di Senofonte nella sua Biblioteca Storica (XIV, 30), senza tuttavia aggiungere ulteriori particolari rispetto alla descrizione data nell’Anabasi di Senofonte. 
2 – Mayor (2003: 146) afferma erroneamente che si verificò qualche decesso, ma Senofonte esplicita bene il contrario, affermando che “il miele non ha ucciso nessuno”. 
3 – Diverse specie di Ericaceae, incluso il Rhododendron ponticum, contengono un principio nervino tossico denominato andromedotossina. Anche il Ledum palustre L., utilizzato come pianta psicoattiva, ne contiene (Plugge, 1891a,b, Wood et al., 1954). 
4 – La parola greca Mainómenon significa “pazzo”. 
5 – “A Tresibonda, nel Ponto, il miele, a quanto mi risulta, è ricavato dalle piante di bosso, ha un profumo molto intenso, rende pazzi i sani e guarisce gli epilettici” (Eliano, Sulla natura degli animali, V, 42). 
6 – Secondo la traduzione di Anna Maria Cotrozzi, in Plinio, Storia Naturale, Einaudi, Torino, vol. III/2, pp. 195-6. 7 – ibid., nota 74-2, p. 195. 8 – Si veda Il balché delle popolazioni Maya

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